Ritorno dopo qualche settimana di pausa. Due settimane di lavoro intensivo che mi hanno impedito di buttare giù, come faccio di solito, argomenti per la rubrica. Quindi per questa settimana non avevo un piano vero e proprio, ma è proprio in questi momenti che la vita ti sistema.
Abbandonando un po’ alla volta lo smart working ieri sono andata in ufficio. Ho trascorso il pranzo con una collega, trent’anni più grande di me, che ha iniziato a raccontarmi com’era lavorare in un’azienda prettamente maschile quando aveva la mia età.
“Non ero invitata alla convention – li chiamavano così prima i seminari” mi ha detto “Ma poi mi volevano alla cena. Eravamo 4 donne e ci volevano mettere una per tavolo. Come un centrotavola, una decorazione. Io allora ho detto di no e non ci sono andata”.
Rappresentazione femminile
Per fare la differenza e cercare di rendere meno sfuggevoli questi argomenti a volte li spiego come la differenza tra quella che possiamo chiamare rappresentazione, contrapposta alla rappresentanza femminile.
La rappresentazione è quando vediamo donne, come la mia collega da giovane, in posti in cui non potevano stare o a cui non venivano invitate.
È vedere tante donne (non solo Aurora Leone) giocare in una squadra mista per beneficenza alla Partita del cuore.
La rappresentazione è poter guardare in tv sempre più donne che parlano di politica, di economia. È avere tante donne a capo di aziende, associazioni, progetti di ricerca. Così tante che avere la Cristoforetti nella Stazione Spaziale Internazionale (SSI) o la Gianotti al Cern (Organizzazione Europea per la Ricerca Nucleare) non fa più notizia.
La rappresentanza femminile
La rappresentanza, invece, la intendo come quando in un panel di soli uomini si posiziona una donna per “fare colore” o per dire “vedete, siamo inclusivi”. Un po’ come è successo ad Aurora Leone che, povera figlia, per un attimo ha creduto di essere sfuggita al maschilismo congenito di certi sport, ma alla fine la realtà l’ha colpita dritta in faccia.
Aurora era di rappresentanza. Un po’ come lo sarebbe stata Rula Jebreal, la giornalista italo-istraeliana, di origini però palestinesi, che il mese scorso è stata invitata a Propaganda live il programma di Diego Bianchi per parlare proprio della situazione istraelo-palestinese. Capace sicuramente, ma a quanto pare solo lei lo era.
La giornalista, dopo aver visto il panel di persone invitate alla serata ha detto un chiaro e puro “no”.
«Quando ho visto sette invitati e una donna, ho detto che lo consideravo inaccettabile. Ho voluto mandare un messaggio forte, non solo a Propaganda Live, ma a tutti i programmi tv. Lancio l’allarme per un tema che rispecchia il Paese, anche in politica, task force, lavoro».
Chi salta sul carrozzone della rappresentazione
I feedback a questa decisione sono arrivati da tutti, che parlano solo quando fa comodo. La destra che ridacchia perché un programma “di sinistra” è stato portato sul patibolo in pubblica piazza e dice, “Vedete noi abbiamo più donne“. La sinistra che, come spesso accade, si mette a contare sulle dita tutte le donne che, anche per 30 secondi, hanno presenziato.
Non un buon momento per Propaganda Live che, poco dopo, si troverà coinvolto in un altro scandalo.
Roberto Angelini, artista da Primo Maggio e ospite fisso alla trasmissione, viene multato per avere, nella forza lavoro del suo ristorante di sushi d’élite a Roma centro, una lavoratrice in nero. Un altro avvenimento da cui possiamo prendere qualcosa.
La donna, fermata dalla Guardia di Finanza dopo il coprifuoco, ammette di essere in giro per lavoro, portando i militari a fare ulteriori approfondimenti.
La donna, però, è stata aggredita verbalmente e bullizzata sui social del cantante. Un account con più di sessanta mila follower che sono stati sganciati sulla lavoratrice.
Cuori, baci e solidarietà arrivano da altri artisti da “Primo Maggio”, dalla parte dei lavoratori, ma ancora di più dalla parte degli imprenditori, se sono loro amici.
Eh, ma lei ha detto di no…
Insomma, la destra ride e la sinistra si nasconde dietro un dito come al solito. Nessuno che capisce davvero il problema e qualcuno che dice “Eh, adesso che lei ha detto di no, non ci sarà neanche una donna”.
La colpa dell’assenza delle donne in programmi televisivi ma anche in eventi culturali e di approfondimento (come vedremo tra poco) è colpa delle donne?
Quindi o ti accontenti di essere l’unica invitata e ci vai per fare rappresentanza, oppure ti rifiuti di andarci e, in qualche modo, gli dai la scusa per dire “Vedi, noi le vogliamo invitare le donne (la donna, cioè) ma se non viene non è colpa nostra”.
Ancora una volta la responsabilità è stata declinata.
La rappresentazione nei MANEL
Proprio pochi giorni prima della vicenda che ha coinvolta Jebreal, tra gli account Instagram di alcune attiviste femministe iniziano a girare le copertine, con illustrati i panel, di alcuni eventi di approfondimento culturale, che vi metto qui sotto.

Non vorrei soffermarmi troppo sulle tematiche (anche se quello sull’allattamento con panel principalmente maschili fa ridere un sacco) ma solo per farvi vedere cosa si intente quando si dice che, piuttosto che panel, sono manel. I panel tutti al maschile.
Ci facciamo caso che, quando andiamo a seminari, eventi e simili le donne sono sempre in estrema minoranza? Che si parli di nuove tecnologie, energia rinnovabile, informatica, filosofia e persino l’allattamento, sono più gli uomini quelli che vengono chiamati a parlare.
Ora la domanda da fare è: non si trovano proprio donne competenti da invitare?

Questa è la scusa che è stata riportata l’anno scorso dagli organizzatori del Premio Strega che, da anni, vengono chiamati in causa nell’evidente sbilanciamento tra donne e uomini in candidature e vincitori. Qui tutti i dati a riguardo.
Che cosa vogliamo far pensare, che non ci siano donne competenti da chiamare nei panel? Che non ci siano donne in grado di scrivere bei libri? Davvero vogliamo credere che gli uomini vincano in così stragrande maggioranza i concorsi letterari perché sono solo loro bravi a scrivere?

La rappresentazione negli eventi
La problematica della poca rappresentazione femminile negli eventi pubblici con la presenza di panel non è di certo nuova. Ci sono infatti diverse iniziative, tra cui quella del #equalpanel di Ewmd Italia, un network di imprenditrici e aziende italiane e internazionali, che si propone di “aumentare significativamente e in modo sostenibile la rappresentanza delle donne nei ruoli apicali in Italia, individuare approcci innovativi nella gestione delle organizzazioni e diffondere buone pratiche per raggiungere una reale parità di genere”.
Una lista di pochissimi accorgimenti da prendere per essere sicuri che il proprio panel sia inclusivo.
Inclusivo non solo per quanto riguarda le donne, ma anche persone disabili, appartenenti alla comunità LGBTQ+ e POC e tutte le intersezioni.
Pregiudicare la varietà del discorso
Voglio ricordare che la poca rappresentanza delle donne in questi eventi non significa soltanto che “le quote rosa non sono state rispettate”, ma che non si stanno creando volontariamente role models per le giovani donne. Quindi si sta volontariamente alimentando lo stesso sistema che, per migliaia di anni, ha recluso le donne in un luogo secondario e non sul palco con i colleghi maschi.
Inoltre si sta monopolizzando il discorso, impedendogli di crescere e diversificarsi sotto mani che non siano privilegiate.
Come dice infine Jebreal:
«La battaglia per la parità non è una faccenda delle donne. È una questione che riguarda tutti, di democrazia e giustizia. Se l’uomo non vuole rinunciare al privilegio, mi dà una pacca sulla spalla e dice brava, continua a lottare, le cose non cambieranno mai. Ma le regole si possono cambiare solo insieme. E finché non saremo tutti liberi, nessuno lo sarà davvero».
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