La recente liberazione della volontaria Silvia Romano dalle mani dei rapitori ha riportato a galla il problema dei riscatti. Non è la prima cooperante ad essere stata vittima di un rapimento e probabilmente non sarà l’ultima. Altri prima di lei hanno attraversato lo stesso inferno. Gabriele Torsello, Giuliana Sgrena, Greta Ramelli, Vanessa Marzullo, Simona Torretta. Sono solo alcuni degli italiani rapiti e poi liberati in cambio di un riscatto. Ma questa volta, vittima forse la difficile situazione che il Paese sta attraversando, le critiche sono state particolarmente accese. Non si sa con esattezza quale sia la somma versata al gruppo terroristico. In un primo momento si è parlato di 1 milione 200 mila euro. Poi di quattro milioni. Se la somma sia questa, se il pagamento ci sia stato davvero, non è dato sapere. Tuttavia viene da chiedersi quali siano le norme che indirizzano gli Stati sul modo di operare.
La mancanza di norme sui riscatti in Italia
Gli anni ’70 sono stati uno dei capitoli peggiori per la storia d’Italia. Il gran numero di stragi, di rapimenti, uccisioni, ha segnato la politica nostrana e la vita di molti cittadini. Potremmo dividere i rapimenti in tre macro-gruppi: politici, terroristici o con finalità di estorsione. Il legislatore ha cercato di porre un freno almeno per quanto riguardava la terza tipologia di rapimenti che è sopravvissuta agli altri due. In alcune regioni d’Italia, come ci racconta un articolo del Il Post, i rapimenti erano una forma di sostentamento per piccole famiglie criminali. Per questo, lo Stato italiano ha deciso di promulgare una legge, nel 1991, che congelasse tutti i beni delle famiglie dei rapiti, per impedire che pagassero i riscatti. Una strategia che si è rivelata vincente almeno per il fronte interno. Ma per quanto riguarda i sequestri ad opera di gruppi terroristici nel mondo, qui il panorama cambia.
Cosa dice l’Europa
Anche in UE il panorama è confuso e frammentato. Dopo gli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004, gli Stati europei hanno dato vita al Coordinatore antiterrorismo dell’UE. Tra i compiti che svolge c’è quello di fornire delle raccomandazioni politiche nell’ambito del terrorismo oltre a monitorare le azioni dei singoli Paesi. Ma non ci sono regolamenti che impongono, tassativamente, alle Nazioni europee, di non pagare riscatti per i cittadini rapiti. Nella conclusione del 23 giugno 2014, il Consiglio europeo
condanna il ricorso al sequestro di persona a scopo di estorsione da parte di gruppi terroristici; respinge esplicitamente il pagamento di riscatti e le concessioni politiche ai terroristi”.
Un consiglio volto soprattutto a prevenire futuri rapimenti così da impedire una “formalizzazione” di questa pratica tra i gruppi terroristici. Ma ad oggi, si sa, che molti Stati continuano a pagare per liberare i propri cittadini.
Nazioni Unite e il caso Stati Uniti sui riscatti
Salendo nella gerarchia delle “fonti”, per così dire, leggiamo che anche le Nazioni Unite hanno affrontato il problema. Con la risoluzione 2133/2014 si sollecita a non seguire la pratica dei pagamenti ma non si aggiunge altro. Sembra dunque ci sia un vuoto legislativo che, nonostante le indicazioni, lascia una certa discrezionalità ai singoli Stati. Chi sembra sposare la linea dura sono gli Stati Uniti che assieme ai “cugini” britannici e a Israele preferisce utilizzare il metodo degli scambi di prigionieri. Ma ciò non sembra avvenire sul fronte interno, in cui, privati cittadini possono pagare riscatti per i familiari rapiti. Stesso sistema per gli statunitensi, privati cittadini, rapiti all’estero. Il governo americano non interferisce sulle trattative tra i gruppi e la società per cui opera il rapito, ma sconsiglia sempre di pagare. Gli unici intransigenti sembrano essere i Giapponesi che ad ogni richiesta hanno sempre risposto con fermezza, no grazie.
Un problema di difficile risoluzione
La questione, come si legge, è difficile risoluzione, anche per coloro che sposano la linea intransigente. Non solo perché ne va della vita degli ostaggi, il più delle volte uccisi dai propri rapitori in assenza di un pagamento. Tutto si “gioca” su un difficile equilibrio tra salvare vite umane, sancito anche dalla Costituzione, e lotta al terrorismo che significa non finanziarlo. Probabilmente una sorta di prevenzione potrebbe giovare. Molte delle piccole organizzazioni italiane che operano in Paesi stranieri non hanno un codice di condotta da seguire. I cooperanti, quindi, si trovano sprovvisti degli strumenti per scongiurare un rapimento. Una maggiore formazione in tal senso potrebbe aiutare. Dall’altro lato, come già detto in precedenza, c’è un vuoto legislativo da colmare a più livelli. Se è vero che gli organi sovrannazionali possono limitarsi a fornire delle indicazioni, resta valido l’invito ad agire a livello nazionale.
Immagine di copertina: Foto di Ichigo121212 da Pixabay.
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