Questo che state per leggere non avrebbe dovuto essere il quinto appuntamento con Woman Gaze(tte), ma poi è successo qualcosa.
Questo potrebbe farvi pensare che io non sia affatto una persona organizzata e, vi posso dire, che avete assolutamente ragione.
C’era tutto un altro argomento che avrei dovuto trattare, ma poi ho dovuto fare un Rx alla testa e quindi tirarmi via, come la barbara che sono, il piercing in cima al mio orecchio.
Questo ha reso necessario una corsa veloce dal piercer di fiducia che, con mascherina e attenzione, mi ha ripulito e cambiato il piercing.
Chi se ne frega, Valeria, direte. Anche qui avete ragione. Arrivo al punto.

Story Time
StoryTime: mentre sono lì a farmi tirare l’orecchio destro, quello sinistro ascolta quello che avviene nella stanza accanto. Un ronzio costante e veloce mi dice che c’è una sessione di tatuaggio in corso, lì vicino. Sento delle voci. Una ragazza, la tatuatrice, e un ragazzo, il tatuato, parlottano pian piano. Nonostante io abbia l’udito ferito da anni ed anni di musica ad alto volume in piccole cuffiette, riesco a sentire.
Parlano della legge contro l’omotransfobia.
«Non dovrebbe servire.» dice la tatuatrice. «Io ho un sacco di amici gay, non è che ne hanno bisogno.»
Il mio cuore crolla, smetto di sentire il dolore del piercer che mi muove l’orecchio, e nella mia testa mi risuona la voce del mio ragazzo – che pazientemente mi attende fuori dallo studio – che dice: “Valeria, sta calma. Non è un problema tuo. Non devi per forza combattere con tutti”.
E ha ragione, mi dico. Non devo. Faccio small talk e passo oltre.
«Allora anche gli etero devono avere una legge» dice il ragazzo. «Ormai è discriminazione al contrario». Vi ricorda qualcosa?
Potrei scrivere un saggio sulle diverse sfumature di questa frase, ma me la dovrò tenere per un altro appuntamento.
«Cioè, adesso se un gay mi sputa in faccia non gli posso menare perché è gay?»
Questo mi dà il colpo di grazia. Scoppio a ridere, una risata che non ha niente di divertito ma in linguaggio non verbale vuole dire “Perché proprio adesso? Non potevi stare zitto altri dieci minuti?”.
Cosa fare, adesso?
È evidente, a questo punto, che sono accanto ad un buco nero di ignoranza, una persona incapace di leggere, ascoltare, comprendere. Ma purtroppo in grado di parlare. Ma, ragazzi, libertà di parola nel bene e nel male.
Qui arriva il dubbio. Cosa fare, adesso?
Stare in silenzio, lasciare che quell’idiozia si sedimenti in conferme tra persone ignoranti e, con la forza del falso consenso sociale, si normalizzi?
Oppure parlare, fare incazzare qualcuno, fare annoiare qualcuno, prendersi qualche insulto magari, però fare in modo che la prossima volta ci pensi due volte prima di parlare?
Mentre ci penso con gli occhi fissi sul pavimento – e con sempre la voce del mio ragazzo nella mia testa che, con un’inclinazione simile a quella di Silente che guarda il piccolo corpo di Voldemort a King’s Cross, dice “Non puoi fare niente per lui…”– il piercer che ancora lavora sul mio orecchio, non può più stare zitto.
Alzo la testa, i miei occhi si illuminano, dal mio viso va via ogni segno della sindrome pre-mestruale, il cuore si apre. «Che cazzate che dite.» dice, con nonchalance, «Certo che gli puoi menare. Ma non perché è gay.»
Lo guardo e rimango in attesa. Forse non c’è bisogno di parlare, forse qualcun altro lo farà, questa volta.
Anche se…
«Anche se tutto questo perbenismo e politically correct mi sta sul cazzo…» continua.
Il tatuato riparte all’attacco «Eh infatti, quello dico. Io se al mio amico ne*ro lo voglio chiamare ne*ro, ce lo chiamo. Lui è mio amico, mica si offende».
Il buco, da cui pensavo di aver appena fatto capolino, mi risucchia giù con forza. Sono senza parole e, devo ammetterlo, è difficile lasciarmi senza parole.
Anche qui, come per la frase precedente, potrei scrivere un lungo essay su come una eccezione singola non dovrebbe essere considerata come base per una regola generale. Come se il fatto che al tuo amico potrebbe andare bene – o se non lo sopporta perché non vuole ancora farti notare determinate cose per non perderti come amico – non vuol dire che debba essere normalizzato, altrimenti si viene bollati come “perbenisti” o si usa con disprezzo il “siete così politicamente corretti”.
Come se fossero dei ribelli, loro.

Spoiler. Non sono stata zitta.
Arrivo al punto e vi faccio uno spoiler. Non sono stata zitta.
Il piercer ad un certo punto si è girato verso di me e ha aggiunto un «No?» alla fine della frase. Non si trattava più della scelta tra parlare o meno, ma di accomodare qualcun altro per evitare una situazione di disagio.
Non potevo.
Ho detto la mia, qualcuno ha provato a rispondermi, poi è caduto il silenzio. Il mio ragazzo mi ha cazziato perché siamo rimasti venti minuti di più del necessario, ma poi ero fuori, con un piercing nuovo, un po’ di rabbia repressa e una domanda: bisogna sempre parlare e dire la propria davanti a manifestazioni così pure di ignoranza, o bisogna “lasciar passare” con la consapevolezza che “tanto non cambieranno mai idea”?
Esporsi?
Quante volte siamo state in silenzio davanti ad evidenti casi di sessismo, omofobia e razzismo perché avevamo paura di esporci, di prendere posizione?
Questa volta è andata “bene”. A fare questi commenti erano delle persone a me sconosciute che, con mio importante impegno, rimarranno tali. Cosa succede invece quando sono i nostri genitori, parenti, amici, fidanzati, a fare discorsi problematici? Cosa fare in quel caso?
Parlare o stare zitti?
Non credo che ci sia una regola fissa da seguire. A volte combattere sempre, parlare sempre, può essere stancante, ci può prosciugare e può farci vedere il mondo estremamente grigio. Ma stare zitti ci sottopone al rimugino, al senso di colpa, al “avrei potuto”.
Quello che è certo è che stare zitti è un privilegio.

Il silenzio è un privilegio
Se non avessi parlato, la questione sarebbe potuta peggiorare o il discorso si sarebbe potuto ben presto esaurire. Io sarei uscita venti minuti prima, sempre con il mio piercing nuovo e con un po’ di fastidio in fondo allo stomaco. Come quando hai avuto una discussione con qualcuno e le risposte giuste ti vengono solo dopo, solo che questa volta sarebbe stato tutto nella mia testa.
Perché non parlavano direttamente di me. Una ragazza bianca, (che passa per) etero. Che cosa sarebbe successo, invece, se al posto mio ci fosse stato qualcun altro? Se proprio in quel momento fosse entrato qualcun altro nel negozio, in attesa di essere servito?
E se tutto questo fosse accaduto su un autobus? Su un treno?
Parlare, in casi come questi, potrebbe portare ad una sensazione di disagio di imbarazzo, e la nostra risposta primaria è quella di fuggire da tali sensazioni.
Ma a quale costo?
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