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Vita da migrante: fuggire per morire su una mina lontano dal proprio Paese

“Ma chi glielo fa fare? Ma perché non se ne stanno a casa propria?” Se il primo pensiero che vi viene in mente leggendo questo titolo ha questo tono, per favore, passate oltre. Su questo blog non c’è spazio per gli odiatori di professione. Se, invece, non siete persone di questa risma, mi piacerebbe parlarvi di migrazione e delle condizioni di vita che qualunque migrante è costretto a sostenere lungo la tratta balcanica. Probabilmente, proprio perché tocca meno l’Italia, la via di accesso all’Unione Europea da oriente è meno sentita dai media nazionali. Eppure le persone muoiono sui rilievi serbi, croati, bosniaci, esattamente come quelle che perdono la vita cercando di attraversare il Mediterraneo su un’imbarcazione.

Vita da migrante: la rotta balcanica

Con l’espressione rotta balcanica si intende quel corridoio che dalla Turchia e dalla Grecia, idealmente dalle isole di Lesbo e Samos, conduce sino al confine con l’Italia, a Trieste. Con l’ingresso di alcuni Paesi balcanici nell’Unione Europea a partire dagli anni ’90, quest’area ha rappresentato una via di fuga preferenziale per i migranti. I numeri lo confermano:

A fine dicembre 2019 UNHCR stimava in circa 53.000 il numero complessivo di migranti presenti nei Balcani occidentali, ovvero in Macedonia, Albania, Montenegro, Serbia e Bosnia-Erzegovina, comprendendo in tale numero sia richiedenti asilo e rifugiati, sia migranti non in cerca di protezione.

Il Diritto d’Asilo – Report 2020

Ovviamente, data la collocazione geografica, la provenienza dei richiedenti asilo è quella mediorientale: il 32,72% dei richiedenti asilo proviene dall’Afghanistan, il 25,91% dal Pakistan, l’8,03% dalla Siria, il 6,56% dall’Iraq e infine il 4.61% dall’Iran.

Aree con instabilità politica molto forte e conflitti bellici pluriennali, addirittura decennali. L’unica via di salvezza, per buona parte di queste popolazioni, è fuggire e l’Unione Europea è una delle mete predilette. Ma come arrivarci?

Il vergognoso patto con Recep Tayyip Erdoğan

Lo dicevo nel 2016 e continuerò a dirlo all’infinito. Il patto firmato dall’Unione Europea con il Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan è una vergogna. Per riassumerne brevemente il contenuto: l’Unione paga una esosa tangente alla Turchia per rimpatriare i migranti che arrivano in Grecia via mare. Per parafrasare ulteriormente: tenetevi voi il problema. Tutto, ovviamente, nel “pieno rispetto” del diritto dell’UE e internazionale, sia chiaro. Ma chiudendo tutti e due gli occhi rispetto alle palesi violazioni dei diritti perpetrati da Erdogan. Ancora una dimostrazione di quanto i governi non siano in grado di affrontare i problemi importanti, buttando i soldi dei contribuenti europei, ricordiamolo.

Eppure, la disperazione è più forte dei confini e dei patti internazionali. Ed è così che la strada verso la normalità si è fatta ancora più ardua.

Vita da migrante: morire a migliaia di chilometri da casa

Nonostante la morsa che negli anni ha stretto le maglie di accesso all’Unione, i flussi migratori non si sono interrotti. Ma il viaggio è diventato più lungo, più pericoloso, più snervante. Tanti cercano di attraversare a piedi i valichi sui Balcani, rischiando di morire congelati. Altri, come è accaduto qualche settimana fa, sono vittime di un nemico subdolo, perché invisibile. Mi riferisco alle mine antiuomo disseminate qui e là, residui del conflitto bellico che ha infiammato Bosnia, Croazia e Serbia negli anni ’90.

La polizia ha fermato i migranti con un elicottero e ha ordinato loro di aspettare restando fermi nel campo minato fino all’arrivo dei soccorsi. Dopo che un uomo è stato ucciso e un altro ferito giovedì nell’esplosione di una mina vicino a Blato, nel comune di Saborsko, a pochi chilometri a nord dei Laghi di Plitvice, un altro gruppo di migranti è rimasto intrappolato in un campo minato a circa 10 chilometri di distanza vicino a Dabar. Gli agenti hanno tratto in salvo i malcapitati migranti  e ora la polizia ha pubblicato anche il video dell’azione di salvataggio.

La voce del popolo

Se questo è un uomo

Ogni anno, a distanza di decenni dall’Olocausto, la comunità internazionale urla “mai più!”. Che non si vedano più immagini tragiche come quelle, che non si tratti più un essere umano come i nazisti trattarono gli ebrei. Un migrante, oggi, che attraversa mezzo mondo pur di vivere una vita più serena, è diverso dagli ebrei di oltre settant’anni fa? Si direbbe di no.

Reportage di Propaganda Live sull’isola di Lesbo dell’ottobre 2019.

Esseri umani costretti a vivere, forzatamente, all’interno di “centri di accoglienza”, che talvolta bruciano, come è accaduto in quello di Moria, sull’isola di Lesbo, in condizioni di sovraffollamento, con scarso igiene. Peggiore la situazione nei campi nei Balcani, che in inverno finiscono sotto la neve. Ed è così che tanti tentato The Game, di attraversare il confine sperando di non essere bloccati e riportati indietro dalla polizia.

Molti riescono, tanti altri tornano indietro. Davvero è questo il meglio che come Unione Europea sappiamo fare? Sono profondamente europeista ma come essere umano, come donna, come cittadina, mi vergogno della nostra superficialità: il cancro della nostra società.

Immagine di copertina: Foto di Markus Spiske su Unsplash.

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