Il pregiudizio di sopravvivenza: l’eccezione che diventa la regola

La filosofia di vita che negli ultimi anni ha imperversato sui social, proprio grazie alla necessità di semplificare abbastanza la realtà e la vita, per farla rientrare in pochi caratteri e in una foto, è quella della good vibes only. La filosofia della costante positività come negazione della negatività, più che dell’incoraggiamento ad affrontare la negatività.
Frasi come “Tutto andrà bene”, “Ogni evento ha qualcosa da insegnarti, reagisci!” “Sii positivo! Potrebbe essere peggio”, soprattutto dette a persone che stanno affrontando un momento difficile della loro vita, è una sofferenza sulla sofferenza, dando la colpa alla loro volontà. Oggi parleremo proprio del pregiudizio di sopravvivenza e della retorica della volontà.

La depressione non si cura con la volontà

Quello che magari viene fatto con volontà “positive”, diventa un cartello da mettere in faccia alle persone in un momento di difficoltà con scritto “smettila di lamentarti”. La verità, però, è che difficilmente frasi del genere si dicono perché si vuole portare un po’ di positività alla persona in difficoltà, piuttosto perché siamo diventate persone così semplici e alla rincorsa della semplicità mentale che non si riesce fisicamente ad avere a che fare con le difficoltà.

Un esempio lampante potrebbe essere quello della depressione. Una problematica di salute mentale che si definisce come un vero e proprio disturbo a livello medico, ma che viene affrontato dai più con un “non pensarci”, un “prova a rilassarti” o un ancor peggio “ma che c’hai di così grave da essere depresso?”.

Non riusciamo a gestire la complessità che porta con sé l’idea stessa di depressione e di quello che può portare nella vita della persona. E quando quel problema non ci tocca da vicino, automaticamente, diventa un non-problema e non facciamo altro che sminuirlo.
Quello che succede, a livello mentale, alla persona con un disturbo depressivo, è quello si sentirsi non solo completamente sola, ma anche colpevolizzata della sua stessa malattia.
A nessuno verrebbe mai in mente di andare da un malato oncologico e dire “non pensarci e vedrai che passa” (anche se la retorica del “pensa positivo” ha messo le sue tossiche radici anche nel mondo del self-help e della auto-medicina in campo oncologico).
Nessuno andrebbe neanche da un malato oncologico a farlo sentire in colpa per la sua condizione, come se stesse portando noia e fastidio a tutte le persone che ha intorno.

Se vuoi, puoi

Quello che porta le persone a sentirsi inferiori o colpevolizzate per la loro situazione (che sia di salute, fisica o sociale) è quello di cui vorrei parlare oggi, ripercorrendo altri discorsi affrontati in altri argomenti in questa rubrica.

La retorica che va molto di moda al momento, sui social e come risposta jolly a tutte le difficoltà, è quella del “Se vuoi, puoi”. Quella retorica che vuole portare tutta l’attenzione sulla volontà personale e sulla volontà di “sacrificarsi” per muoversi socialmente, discolpando così la società stessa della sua incapacità o non-volontà di lavorare davvero per l’equità e per permettere la mobilità sociale.

Se ti convinci, come ti dice la società, che se sei in una condizione di difficoltà è perché non ti stai impegnando abbastanza, la cosa ti fa credere costantemente di doverti impegnare sempre di più mentre combatti contro condizioni sociali su cui non hai potere.
Una lotta ad armi impari che ci si porta avanti per tutta la vita per, alla fine, ritrovarsi al punto di partenza.

La pornografia del successo

La pornografia del successo, il porno dell’ispirazione, riguarda quei messaggi sociali che ci ricordano che l’unica cosa – a quanto pare – che ci divide dal successo è la nostra volontà di lavorare, di sacrificarsi, di impegnarsi.
Ora, è ovvio che questo non vuole essere un discorso per dire “non bisogna impegnarsi”, assolutamente no. Bisogna impegnarsi sempre, anche in un momento di passaggio in cui magari la nostra vita non è esattamente come la vorremmo. Ma l’idea che l’impegno e, soprattutto, la volontà, siano le uniche cose necessarie per ottenere quello che si vuole, è assolutamente tossica e fallace.
Perché non è così.

Il pregiudizio di sopravvivenza

Qui potrebbe essere utile, per capire il discorso, introdurre il concetto di pregiudizio di sopravvivenza.
Un concetto matematico, che entra a gamba tesa nella sociologia e psicologia, per spiegare un concetto che può sembrare semplice, ma che non è ovvio quando lo affrontiamo giornalmente.

Il pregiudizio di sopravvivenza è un errore logico, identificato dal matematico e statistico Abraham Wald, che si commette quando, per valutare una situazione, si prendono in considerazione solo gli elementi (persone o cose) che hanno superato un determinato processo di selezione, trascurando i restanti.
Questo avviene, di solito, perché basiamo i nostri giudizi sulle storie visibili e non quelle invisibili.

Portandola in modo molto cinico: se noi vediamo un bel video di Elodie a Sanremo che racconta la sua struggente storia di self-made-woman, dei suoi quartieri problematici, della sua famiglia complessa ma ha lavorato duro e alla fine sta sul palco dell’Ariston…
La verità è che noi abbiamo visto una sola storia, quella di successo, è di conseguenza prendiamo quella esperienza come benchmark per tutto quello che verrà dopo.

Uno sguardo di genere al pregiudizio di sopravvivenza

Ora inseriamo il pregiudizio di sopravvivenza in una questione di genere.
In un consiglio aziendale ci sono cinque direttori più l’amministratore delegato. Tra i direttori c’è solo una donna, competente e capace, che ti racconta di quanto abbia dovuto faticare, sacrificarsi e lavorare duro per arrivare al posto che occupa in un mondo maschile. E che lei è l’esempio vivente che “se io ce l’ho fatta, ce la puoi fare anche tu”.

È quel discorso, molto americano, che ha raggiunto anche noi dall’altra parte dell’oceano e che fa stragi a destra e a manca. L’idea del self-made-man/woman, di quello che nasce dal niente e arriva ad ottenere tutto.
Queste narrazioni, però, sono irrealistiche e create ad hoc per scaricare sulla persona la responsabilità del proprio fallimento.

Uno su mille…

Mentre una persona potrebbe davvero farcela (poi sarebbe da capire cosa si intende per “farcela”), altre mille si sono perse nelle maglie proibitive della società. Quella storia di successo potrebbe essere, semplicemente, una storia di privilegio, anche se non preso in considerazione.
Dire che “se io ce l’ho fatta, anche tu puoi farcela”, distoglie l’attenzione da tutti gli impedimenti sociali che alcune persone hanno davanti a sé. Mancanza di fondi economici, mancanza di un sistema di supporto familiare, il non avere un corpo abile e tante altre proibizioni.

Il pregiudizio di sopravvivenza entra in azione appena vediamo una di queste storie ispirational e, se all’inizio potrebbe darci un kick per impegnarci ancora di più, se questo impegno si rivela non essere abbastanza per cambiare la propria situazione, è la delusione e la sensazione di fallimento ad arrivare.
La sensazione di fallimento, dataci da questo pregiudizio di sopravvivenza, come se noi fossimo gli unici a non avercela fatta è quella che poi porta le persone a mollare. Perché siamo una società che non ha mai insegnato ai propri figli a gestire il fallimento.

Il soffitto di cristallo e il pregiudizio si sopravvivenza

Dire alle donne che il soffitto di cristallo lo si può rompere con la “volontà”, con il “duro lavoro” e i sacrifici è solo un modo ulteriore per scaricare la responsabilità dell’immobilità sociale sulle donne.

Ho voluto affrontare questo discorso alla luce di quanto accaduto settimana scorsa a Palermo, con le influencer Imen Jane (ideatrice di Will su Instagram) e Francesca Mapelli (autrice di Vice).
Le due influencer, assolutamente all’ignaro dei loro privilegi, sono andate in un bar di Palermo a impartire una lezione ad una barista che, a loro dire, “se avesse studiato di più non guadagnerebbe 3€ l’ora”.

Se prendi 3€ è colpa tua?

Quello che hanno fatto, fondamentalmente, è stato dare la colpa alla giovane lavoratrice e alla sua “non-volontà-di…” della misera paga che le viene data mentre svolge un lavoro assolutamente dignitoso e che, soprattutto, sta servendo il tuo vino bianco o il tuo Spritz. Togliendo la colpa a quella società schiavista che paga i propri lavoratori 3€ l’ora.

Il classismo e il privilegio di queste professioniste under-30 è vergognoso, ma portano con loro l’esempio delle “vincenti”, di quelle che ce l’hanno fatta.
Anche peggio è stato il video di scuse di Imen Jane che ha portato su il fatto di essere “figlia di immigrati che sono arrivati qui con niente”.

Quello che vorrei fare, per me e per voi, è solo portaci a farci qualche domanda sul nostro privilegio e soprattutto a cercare di abbandonare la necessità di semplicità estrema alle spalle e affrontare la complessità della realtà.

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