Il rapporto tra le donne e il denaro è da sempre problematico.
Quando ho iniziato a realizzare l’importanza del denaro nella società e nella sfera familiare eravamo nel primo decennio del duemila. Da un momento all’altro mia madre perse il lavoro e io iniziai a sentire conversazioni in casa che, fino a quel momento, non era stato necessario avere. Conversazioni che i miei genitori non volevano farmi sentire, ma condividendo lo stesso spazio vitale, e avendo io raggiunto l’adolescenza, non potevo non comprendere.
Da quel momento in poi, si è installata dentro di me questa pudicizia terrificante nel parlare di denaro, in ogni campo.
Il tutto peggiorato dalla concezione, molto italiana perbenista anni ’80, che per le donne parlare di soldi sia “volgare”.
Donne e soldi
Per molti anni le donne non hanno dovuto occuparsi dei soldi, perché non essendo impiegate in lavori fuori casa e quindi retribuite, dovevano sottostare ai conti economici fatti dal marito.
Il denaro è stato, da sempre, uno strumento di controllo sulla donna, in una società che non dava loro la possibilità di lavorare in serenità.
Il nostro processo storico non ci ha preparate al momento in cui le cose sono iniziate a cambiare.
Le cose cambiano…
Le cose, però, continuano a cambiare. Sempre più giovani donne si trovano a lavorare appena uscite da scuola o dall’università e questo richiede loro la necessità di parlare di soldi senza portarsi con sé la sensazione di essere delle sfrontate e di sembrare “volgari”.
Gini Dupasquier, vicepresidente di PWN, un’associazione italiana che si occupa di educare le donne al denaro e all’investimento, dice infatti:
«le ragazzine hanno la sindrome di Hermione (Granger, ndr): sono educate a non pretendere troppo, anche in fatto di stipendio. Perciò di denaro bisogna parlare: educazione finanziaria in famiglia, violenza economica, carriera, e perché no, anche l’orgoglio di veder riconosciuta una competenza».
Women don’t ask, le donne non chiedono
Non è un caso che uno dei primi saggi scientifici sul Gender Gap sia intitolasse “Women don’t ask. Negotiation and gender divide”. Le autrici, Linda Babcock e Sara Laschever, dicevano nero su bianco che le donne non erano in grado di contrattare e di chiedere a chiara voce quello che desideravano, che fosse un aumento o una promozione.
Secondo una recentissima ricerca commissionata da Linkedin le donne si sentono meno meritevoli degli uomini in termini lavorativi e meno legittimate a richiedere un aumento.
La ricerca dimostra inoltre che, in trattative su stipendi e promozioni, le donne rimangono indietro.
Più uomini dichiarano di aver negoziato, di aver richiesto aumenti o promozioni.
In media, le donne intervistate hanno aspettato più a lungo per chiedere al loro datore di lavoro un aumento di stipendio dal momento in cui hanno sentito di meritarlo, rispetto agli uomini intervistati.
Riconoscere le proprie qualità
Abbiamo già affrontato la questione della Sindrome dell’impostore, un sindrome che sembra affliggere maggiormente le donne, e la ritroviamo anche qui.
Gli uomini non si sono mai vergognati di richiedere a voce alta quello che si sentivano di meritare. In alcuni casi gli uomini tendono anche a sopravvalutare le proprie competenze, ma a volte va a loro favore, in una sorta di “fake it until you make it” malato.
Mentre chiedere un aumento o una promozione per un uomo potrebbe rappresentare una mail scritta e inviata nel giro di pochi minuti, così non sembra essere per le donne. Donne che continuano a rimuginarsi su, cercando la formula perfetta per non sembrare un’approfittatrice e “poco grata” e rivalutandosi in continuazione.
Basta la metà
Dalla ricerca emerge inoltre che, davanti ad un annuncio di lavoro, le donne non si candidano: almeno non prima di fare un check completo delle competenze richieste. Gli uomini intervistati, invece, dichiarano che ne basta soddisfarne la metà.
Questo discorso è collegato ad una certa insicurezza con cui le donne conducono la vita, perché prive di supporti esterni. Zero insegnamenti sulla gestione del denaro arrivano dalla famiglia o dalla scuola, inserita in una società in cui l’ignoranza del prossimo diventa un’arma nella valigetta del datore di lavoro. Infatti Secondo una ricerca della Cass Business School, in collaborazione con le università di Warwick e del Wisconsin, le donne chiedono aumenti di stipendio tanto quanto gli uomini, ma che gli uomini hanno il 25% di probabilità in più di ottenerli.
Donne e investimenti
Questa insicurezza nelle proprie capacità rimane costante anche quando si tratta di investimenti. Mentre gli uomini sembrano più sicuri di loro nell’investire parte del loro guadagno nella speranza di una futura rendita, le donne “mettono da parte”.
La verità è che dietro questa poco inclinazione all’investimento c’è una insicurezza economica che le donne si portano avanti per la vita. Le donne, infatti, sono quelle che restano più a lungo precarie, facendo i conti ogni giorno con un ingresso monetario che oggi c’è e domani potrebbe non esserci.
Questa insicurezza porta le donne, per necessità, ad essere le formiche della famiglia.
Dove sono finite le donne spendaccione?
Mentre i dati ci dicono che le donne sono quelle che risparmiano di più, è ancora piuttosto forte lo stereotipo della donna spendacciona, che manda via tutto lo stipendio in borse e profumi.
Questo, in realtà, l’ho sempre vista come un ricatto morale, un modo per giustificare, anche da parte dei genitori, una minore fiducia economica nei confronti delle figlie femmine. O dei mariti-padrone nei confronti delle mogli.
Soldi come forma di ricatto
Il denaro è tutt’ora una forma di ricatto. In una società in cui la donna continua ad essere meno economicamente indipendente, continua ad essere alla mercé di padri, mariti e datori di lavoro che vogliono ottenere qualcosa in cambio.
Il ricatto del licenziamento, del non rinnovo contrattuale, del “tanto non puoi trovare nient’altro” fino a “non hai davvero voglia di lavorare”.
Stiamo parlando di lavoro, quindi non parlerò di come donne vittime di violenza fisica in casa e magari con figli, siano impossibilitate a scappare per paura delle conseguenze per la qualità della vita.
Come dice Patrizia Zambianchi, managing director/Head of product management Deutsche Bank
Ma ci sono anche forme più sottili di umiliazione, per esempio quando solo il papà ha la carta di credito. Significa: di te non mi fido. E questo deve cambiare. Spesso in casa non si parla di denaro, e c’è una differenza tra maschi e femmine. Lui ha più bisogno di soldi, lei meno: così passa l’idea che la ragazza non deve essere emancipata, tanto c’è il “cavaliere” che paga la pizza. Cancellerei all’istante le fiabe con il principe azzurro bello e ricco che ti risolve tutto. Cenerentola non studiava! Ancora adesso nei libri delle elementari la mamma stira e cucina e il papà fa l’avvocato. Dieci anni fa una bambina era “invitata” a diventare infermiera o maestra, un “prolungamento” della mamma.
La conclusione che vorrei dare la lascio alle parole di Monica Biagiotti, executive vice president global consumer marketing del gruppo Mastercard. Un modo per dire che l’educazione finanziaria delle nuove generazioni è fondamentale, ma che c’è anche bisogno di una cultura alla parità per le ragazze, in modo che sul lavoro crescano con sicurezza e fiducia nelle proprie capacità.
L’educazione finanziaria è fondamentale, è giusto che in famiglia si parli di soldi, di come spenderli, dalla paghetta agli studi, allo sport, e di come investirli. Di che cosa è necessario e che cosa è superfluo. Ci stiamo evolvendo in questo senso. Tutto comincia con quello che raccontiamo alle bambine.
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