Il coronavirus sta dilagando sull’intero pianeta e nessun Paese ne è risparmiato. La Siria non fa eccezione, nonostante il carico di sofferenza e di morte che si trascina dietro dopo dieci anni di guerra. D’altronde ciò che accade in questo Paese non fa più notizia, così come i migranti sulle nostre coste. Ma a differenza di altri Paesi, qui c’è un vero e proprio dilemma siriano. Nonostante il nostro disinteresse, qui la guerra c’è ancora anche se in apparente standby. Sì, perché a quanto pare il governo del presidente Bashar al-Assad e avversari hanno abbassato i toni e le armi, per far fronte all’emergenza sanitaria. Quanto durerà? Al momento il patto di non belligeranza sembra tenere ma le promesse, come ci dimostra anche la Libia, sono facili da infrangere. Ma forse, in questo caso, il coronavirus è un nemico più spaventoso del tuo avversario con in braccio un fucile.
La situazione nel Paese
Secondo gli inviati dell’agenzia Reuters, la situazione, è in continua evoluzione ed i dati sono ancora poco chiari. Ciò che sappiamo, ad oggi, è che il Paese registra pochi casi di contagio, ma comunque ci sono. La sanità è ampiamente compromessa dopo tanti anni di guerra, in una Nazione internamente divisa. L’area nord-occidentale è ancora in mano ai ribelli che combattono il presidente, in un territorio in cui abitano tre milioni di persone. In tanti, per sfuggire alle bombe, si sono rifugiati nei campi profughi ma il coronavirus fa più paura. Molti hanno deciso di fare ritorno nelle proprie case per timore dell’epidemia. E come dar loro torto? Ma il pericolo che le bombe ricomincino a cadere è concreto e potrebbe mietere altrettante vittime.
Lo stato delle carceri siriane
Al pari dei centro profughi, anche le carceri rappresentano un rischio per la Siria. Per questo motivo Assad il 22 marzo scorso ha dichiarato di voler concedere un’amnistia così da evitare il sovraffollamento. Ma ad oggi, secondo fonti siriane, sarebbero stati rilasciati solo prigionieri per reati comuni. Gli altri, prigionieri politici ed attivisti civili sarebbero ancora sotto chiave. In ogni caso il Governo non sembra in grado di tenere sotto controllo il contagio. Nel nord-est del Paese, cioè quella sotto il controllo del presidente, sono stati registrati alcuni casi. Per le aree occupate la situazione è ancora più preoccupante. C’è un unico macchinario in grado di processare i test per la valutare la positività o meno, su una popolazione, lo ripeto, di tre milioni di persone. Un vero e proprio dilemma siriano.
La guerra nella guerra
Per usare l’espressione utilizzata da Ugo Tramballi su Il Sole 24 Ore in un articolo del 4 aprile, “Nobel per la pace 2020: covid19”. Sì, perché ci è voluta una pandemia per interrompere questo conflitto come tanti altri nel mondo. A quanto pare tutti i fronti caldi si sono raffreddati ed i guerrafondai hanno appeso i fucili al chiodo in attesa di riprendere le ostilità. Anche gli Stati Uniti hanno deciso di chiudere alcune delle loro basi in medio-oriente per scongiurare il contagio tra i suoi soldati. Contagio che, in realtà, c’è già stato in alcuni dei propri campi. Come al solito, però, alle spalle ci sono solo macerie e la povera gente che ha solo due possibilità. Da qui nasce quello che abbiamo definito il “dilemma siriano”. Meglio una bomba sulla testa o coronavirus in un campo profughi?
Foto copertina: di ErikaWittlieb da Pixabay
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