Misoginia interiorizzata

Decostruire la misoginia interiorizzata: sei una cattiva femminista?

Questa settimana penso che ormai tutti abbiano avuto la possibilità di sentire o leggere le parole della giornalista Barbara Palombelli sul preoccupante numero di femminicidi accaduti dall’inizio dell’anno.
Al momento, credo, siamo a 70 donne uccise per mano del proprio marito/amante/fidanzato da gennaio 2021.
Molte persone, dopo l’imbarazzante uscita della giornalista, si sono chiesti: come una donna può dire una cosa del genere? Non ha un minimo di empatia?

Non credo che la Palombelli non provi empatia per le donne che sono state brutalmente uccise da persone con cui hanno avuto una relazione. Forse ha avuto sempre il privilegio di incontrare uomini un po’ diversi, di non rimanere bloccata nel giogo di un manipolatore violento, di avere abbastanza indipendenza economica per darsela a gambe nel momento in cui la questione si faceva strana. Oppure è misoginia interiorizzata.

Oppure è misoginia interiorizzata…

Semplicemente così funziona il suo cervello. Il cervello di una donna cresciuta in una società profondamente patriarcale e sessista. Che si è fatta strada, probabilmente tagliando (figurativamente) gole, in un mondo esclusivamente maschile. Che ha la misoginia impressa a fuoco.
Lo possiamo anche vedere chiaramente, il modo in cui pensa, dal discorso che le hanno fatto portare sul vergognoso palco di Sanremo di quest’anno.

Abbiamo già parlato, in passato, di misoginia interiorizzata. Quei pregiudizi e pensieri profondamente misogini e sessisti che ci hanno inculcato nella testa e da cui è difficile allontanarsi.
Abbiamo parlato delle “Pick me girl”, che vogliono allontanarsi forzatamente dalle “altre donne” per ricevere, finalmente, l’approvazione maschile.
È il caso, molto spesso, delle donne che si rifiutano di considerarsi femministe. Dichiararsi femministe vuol dire, automaticamente, inimicarsi quegli uomini incapaci di sentirsi mettere in discussione.
Quando una donna si dichiara femminista, la famosa coda di paglia di alcuni uomini prende fuoco in un falò imponente che è facile da vedere e da riconoscere. Quello è il momento per allontanarsi.

Misoginia interiorizzata a tradimento

Quello di cui voglio parlare oggi, però, è un ulteriore passo avanti.
Cosa bisogna fare quando, nella vita di tutti i giorni, un pensiero sessista o misogino ci spunta nella testa? Magari ci consideriamo femministe, stiamo al passo con le conquiste del femminismo, ma quei pensieri continuano a sorgerci nella testa con una paurosa naturalezza.
Che cosa vuol dire, questo? Che siamo delle cattive femministe (come direbbe Fleabag)? Che non crediamo davvero nelle istanze del femminismo? Che in realtà crediamo che lo status quo sia buono e che il patriarcato non esista?
La risposta è no.

Cara, sei maschilista

Un interessante esperimento sociale è stato portato avanti proprio in quest’ottica dalla pagina Instagram “Cara sei maschilista”. L’obiettivo della pagina è cercare, anche in modo ironico e “memistico”, di scoprire tutte quelle frasi che si dicono e che nascondono un evidente sottotesto maschilista.
L’admin della pagina ha, nelle storie, inserito un box risposte un po’ diverse dal solito. Una richiesta indirizzata alle donne, invitate a dire “Cara, anche io sono maschilista quando…”.

Destrutturare i pensieri

Era un invito all’autocritica, ma anche un esercizio importantissimo per destrutturare tutti quei pensieri che sembrano venirci naturalmente, ma che smascherano la nostra cultura ed educazione profondamente patriarcale e sessista.

Le follower sono state molto sincere:
• Quando vedo un cognome in un articolo scientifico per i primi secondi do per scontato che sia un uomo;
• Quando mi dicono che non sono come le altre ne sono felice;
• Ad una bimba come complimento dico che è bella, a un bambino no;
• Sento che se non sono attraente non ho valore;
• Quando giudico le donne che hanno molta libertà sessuale;
• Quando ho criticato altre donne per come si vestivano, parlavano, comportavano;
• Quando ho detto che le donne sono nemiche delle donne;
• Quando vedo donne poco vestite e il mio primo pensiero è che sono delle poco di buono;
• Quando considero certi lavori da uomo e non riesco a immaginarci una donna.

Queste sono solo alcune delle autocritiche (che secondo me sono più momenti di profonda realizzazione) scritte da queste donne.
Questo che cosa vuol dire? Che queste donne sono delle ipocrite? E non vere femministe?
Ancora no.

Ammettere di avere un problema?

Il momento di svolta, qui come in altri casi, è quando ci si accorge di avere un problema o uno schema di pensiero. Non bisogna sentirsi in colpa, quando si pensano cose del genere. Bisogna solo affrontare quei pensieri e rendersi conto che la loro apparente “naturalezza”, non è altro che un imprinting che ci portiamo avanti da una vita vissuta in una società patriarcale.

Siamo abituate a vedere le donne trattate in modo diversamente dagli uomini e dalle altre donne in base al loro fisico, scelta di vestiti o di carriera. Questi input che vediamo e sentiamo sono cuciti dentro di noi e l’unico modo per liberarsene è tagliare via il filo punto per punto.
Come un lavoro all’uncinetto venuto male, dobbiamo scucire il filo e riutilizzarlo per creare qualcosa di migliore.
Il filo è ancora buono, possiamo ancora utilizzarlo, solo che dobbiamo portarlo ad intrecciarsi in modo diverso, in modo da formare un prodotto migliore.

Un lavoraccio, ma qualcuno deve pur farlo

Scucirsi e ricucirsi è un lavoraccio. La maggior parte delle persone getta via l’intero gomitolo, perché non ha voglia di stare lì a sbrogliarlo. Ma è un lavoro che va fatto, se vogliamo che questo mondo cambi in meglio.
Se le madri e i padri si prendono la briga di sbrigliare la matassa, le nuove generazioni si troveranno fili liberi e come nuovi, pronti ad essere ricuciti in qualcosa di diverso.

Lo stesso discorso può valere per altri problemi sociali.
Siamo cresciuti in una società profondamente razzista. Verso noi stessi e verso gli altri.
Ancora oggi sentiamo giornalisti e media portare avanti un tipo di comunicazione coloniale e razzista, ed è impensabile che anni e anni di questo genere di messaggi non entri a far parte del nostro modo di pensare.
Anche in quel caso è necessario fermarsi un attimo, perdonarsi, e destrutturare il pensiero.
Chiedersi: perché sto pensando questa cosa? La penso davvero o è così che sono stata cucita.

Un passaggio fondamentale è, infine, perdonarsi. La comunicazione e la consapevolezza intorno a questioni di genere, razzismo, intolleranza, omofobia crescono ogni giorno. Abbiamo sempre di più la possibilità di sentire “l’altra campana”, la voce delle minoranze che vogliono e devono farsi sentire.
Quindi dobbiamo imparare qualcosa ogni giorno, dobbiamo metterci in discussione ogni giorno, perché non siamo un progetto finito, bensì un work in progress.

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