Amanda Gorman

Amanda Gorman e l’autocensura del mondo della cultura

Da diverso tempo ormai, molti di quelli che mi conoscono già ne sono a conoscenza, ho cominciato a lavorare per Fondazione Heal, una realtà del terzo settore dedita a sostenere la ricerca in campo neuro-oncologico pediatrico. Lungo il mio percorso ho avuto il piacere di incontrare diversi colleghi ed in particolare Federica Fiorletta, con la quale lavoro a stretto contatto. Con lei, laureata in Lingue, Culture e Traduzione Letteraria discutiamo spesso di libri, di lingua, di regole di scrittura, ma anche di traduzione: un aspetto sul quale non mi ero mai soffermata troppo a riflettere.

E’ proprio durante una delle nostre conversazioni che mi è giunto lo spunto per la scrittura di questo articolo. La notizia è di pochi giorni fa e vede protagonista la giovane poetessa (22enne) statunitense, Amanda Gorman, e la traduzione della sua ultima raccolta di poesie. Chi è? Penso e spero che il giuramento di Joe Biden a Presidente degli Stati Uniti d’America vi aiuti a capire di chi stiamo parlando.

Amanda Gorman: il rebus del miglior traduttore

Quella della traduzione dei testi è un’arte ed una competenza che affonda le proprie radici nella storia dell’umanità.

Poche settimane fa Amanda Gorman aveva scelto, in prima persona, di affidare la traduzione in olandese della sua racconta in uscita, The Hill We Climb, a Marieke Lucas Rijneveld. Quest’ultima è stata la più giovane scrittrice ad aver vinto l’International Booker Prize for The Discomfort of Evening (con il traduttore Michele Hutchison). Da qui l’epilogo che non ti aspetti. Rijneveld ha dovuto rinunciare all’incarico perché, secondo alcuni, il fatto che sia donna, bianca ed europea comporterebbe dei limiti nelle capacità traduttive dell’opera di una donna afroamericana.

Stessa sorte è toccata al traduttore catalano Victor Obiols, sollevato dall’incarico dall’editore di Barcellona Univers non per incapacità, ma perché diverso, culturalmente e per identità di genere, dall’autrice che era chiamato a tradurre.

Mai, e dico mai(!), avrei pensato di dover leggere delle riflessioni tanto strambe e culturalmente pericolose come quelle che si stanno aggirando attorno a questa vicenda.

La traduzione come “mediazione”

Il semiologo, lo scrittore, l’uomo di cultura, Umberto Eco intendeva la “traduzione come mediazione“. Gli stessi traduttori che si occuparono del suo libro più celebre, Il nome della rosa, operarono a stretto contatto con lui per cogliere i nessi ed i riferimenti intertestuali difficili da individuare e tradurre adeguatamente (anche per un italiano). Eppure, nonostante si sia consapevoli del fatto che nel passaggio da una lingua ad un’altra, molto del senso e del sentire dell’autore vada perso, il lavoro di traduzione resta fondamentale.

In un’intervista di qualche anno fa, Sergio Portelli, Professore associato di Translation Studies e Terminologia all’Università di Malta, pose l’accento sull’aspetto divenuto centrale anche nella vicenda di Amanda Gorman.

I traduttori non devono essere solo bilingui, ma biculturali. Il traduttore Clifford Landers dice che essere biculturali significa essere in grado di percepire i segni, i simboli e i tabù in entrambe le culture, di identificare i segnali nel subconscio e di partecipare all’inconscio collettivo. In altre parole, bisogna essere in grado di cogliere il non-detto in entrambe le realtà culturali. Ciò si può fare solo se si ha un contatto continuo e profondo anche con la cultura di partenza

Sergio Portelli, intervista concessa a Il Libraio (2017)

I traduttori: costruttori di ponti

Dunque, il nodo centrale sta nella differenza culturale che intercorrerebbe tra scrittore ed i vari traduttori chiamati a lavorare su una specifica lingua. Come può un traduttore argentino, comprendere la cultura, le tradizioni, i modi di vivere tipici dell’Afghanistan in cui è ambientato il libro Mille splendidi soli di Khaled Hosseini? Come può uno scandinavo tradurre 1Q84 di Haruki Murakami?

Spero vi rendiate conto anche voi della pericolosa deriva che queste riflessioni potrebbero causare. Se è vero che ciascuno di noi è diverso dall’altro, chi può decidere sulla mia sensibilità e la mia vicinanza al pensiero di un autore? Come si fa ad etichettare le persone? Se è vero, come dice Portelli, che il traduttore deve conoscere ed essere in continuo contatto con la cultura in cui l’opera che deve tradurre è immersa, ciò non implica automaticamente la totale rottura tra i popoli e le genti. Chi dice che io non possa trovare più affinità con un uomo argentino, settantenne, minatore piuttosto che col mio vicino di casa, coetaneo, col quale sono cresciuta?

Non è solo una questione di traduzione

La questione è decisamente complessa ed ha delle implicazioni che, forse, nessuno ha ancora preso in esame. Il fatto che un traduttore sia ritenuto inadeguato a causa delle sue origini e della sua identità di genere, presuppone anche una incapacità empatica. Ma allora, se un traduttore non è in grado di riportare in un’altra lingua il sentire dell’autore, come può un lettore entrare in contatto con lo scrittore stesso? Eppure capita di continuo.

Credo che chiunque abbia letto almeno un libro nella sua vita sarà in grado di testimoniare la propria capacità di empatizzare con il sentire dei personaggi, e quindi con l’autore. Ok, non succede sempre con tutti i libri, ma sicuramente l’attaccamento o meno ad una storia o ad un personaggio non dipende dall’appartenenza dell’autore e del lettore a due culture differenti. Caspita, ho letteralmente odiato la figura di Madame Bovary eppure ho amato, con grande sofferenza, Heathcliff e Catherine: io, Gustave Flaubert ed Emily Bronte siamo tutti e tre europei ma di epoche diverse. Come la mettiamo?

Scrive Nicola Lagioia sui social:

La letteratura ha questa forza immutata. Riuscire a far crollare le differenze di nazionalità, di genere, di orientamento sessuale, addirittura di specie e di regno, certe volte. E’ una forza sempre rivoluzionaria e trasformativa. Non è una questione di contenuti, ma della prossimità, dell’intimità che si riesce a creare, attraverso un testo, tra tu che leggi e la storia. Non cadete nell’inganno di correre dietro alla carrozza dell’ideologia di chi pensa […] che solo i bianchi possano leggere i bianchi, solo i neri i neri, solo i maschi i maschi, solo le lesbiche le lesbiche, solo i gay i gay. Naturalmente vale anche per le traduzioni.

L’arte della traduzione: il fascismo degli antifascisti

Riflettendo, in preparazione di questo articolo, mi è tornato in mente un libricino che ho letto qualche mese fa, scritto da Pier Paolo Pasolini, Il fascismo degli antifascisti. Si tratta di una brevissima raccolta di suoi articoli pubblicati su vari quotidiani nazionali tra gli anni ’60-’70. Nei suoi scritti, Pasolini, oltre a criticare la società dei consumi che si stava delineando in Italia in quel periodo, riflette sul fascismo che molti giovani antifascisti dimostravano nell’espressione di una nuova cultura di massa, omologata.

Che c’entra questo con la traduzione, direte voi? Io, personalmente, ci ritrovo moltissimo della vicenda di Amanda Gorman. L’eccessiva rincorsa alla realizzazione di una cultura maggiormente universale (auspicabile) che non includa più solo quella bianca, ma anche quella nera, ispanica, asiatica, africana, sta facendo sorgere nuove ideologie. Ideologie da contrapporre a quella che finora è stata predominante. Il rischio è di perdere il senso dell’orientamento e andare alla deriva, in una direzione pericolosa: l’autocensura del mondo della cultura. Ed allora presto o tardi, in un ipotetico futuro orwelliano, ci ritroveremo a leggere di autori italiani che scrivono solo libri ambientati in Italia, non più tradotti (perché tanto chi altro dovrebbe leggerli), pensati per lettori esclusivamente italiani. Perché chi può capire meglio un italiano di un italiano stesso?

E guai a Joël Dicker, uno scrittore svizzero, se si permetterà ancora di ambientare una sua opera negli Stati Uniti. Guai a Ken Follett, britannico, se si permetterà di ambientare un’opera nell’anno 1000 in Normandia.

No, sinceramente non voglio vivere in questo mondo. Cara Amanda Gorman, ripensaci!

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